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martedì 2 agosto 2011

POESIA E CRITICA


POESIA E CRITICA
di GIULIANA LUCCHINI

Si fa tanto un parlare di critica e di poesia in questo periodo, che induce una riflessione (in effetti sollecitata).
In questo mondo affollato e cresciuto culturalmente, è ovvio, oggi si scrive più che in ogni altra epoca. Soprattutto poesia. Ramo fiorente della letteratura. Chi non possiede mente particolarmente inventiva e immaginazione complessa, fantasia creatrice (talento innato), con buona dose di sicurezza scrittoria e capacità strutturale per avventurarsi nella narrativa di successo, magari con un tocco di colore ‘horror’ alla moda, scrive versi.  Non sono impegnativi, rispetto alle altre forme di scrittura, non hanno bisogno di ‘scalette’, di personaggi, di intrichi, intrecci, di un’architettura d’insieme, di tanti ingredienti indispensabili. Il verso è libero. Accessibile. Basta andare a capo. Si può scrivere di tutto. E per prima cosa si scaricano le pulsioni emozionali, o di pensiero, inerenti al proprio essere, o esserci, nel mondo. Si indaga dentro se stessi l’imprevisto, lo sconosciuto. Si trova il proprio ritmo.
L’io, sempre celebrato, diventa l’esclusivo protagonista. Funziona da particolare che può guadagnare (o perdere) approcci con l’universale.
In tale contesto sorge il problema della lingua. Una poetica si impone, che caratterizza l’autore. Ognuno ha la propria lingua. Dalla più semplice, ingenua, banale, quotidiana, alla più articolata, metaforizzata, asciutta, intellettuale. Si possono dire le cose in tanti modi. Ciascuno sceglie (o subisce) il proprio stile.
Ma da questo, a fare opera d’arte, ce ne corre.

Chi scrive ama i propri testi e guai a chi glieli tocca. (“Ognuno ama solamente se stesso”, cantava già qualcuno tanto tempo fa).  Se un poeta presta attenzione a testi di altri, e vi si rapporta, torna pur sempre pieno d’affetto alle proprie pagine. Nessuno lo convince del contrario. I libri sono come figli del poeta. Per assicurarsi che abbiano lunga vita, i poeti li battezzano, li cresimano, a mezzo di ‘Prefazioni’, ‘Postfazioni’, segnali di salute e validità che dovrebbero invogliare e guidare la lettura, e che invece finiscono con il condizionare, perché il libro riceve, e si stampa addosso, con tutte le buone volontà, un’impronta estranea, una visione spesso parziale, riduttiva, o comunque insufficiente nel complesso.
Ma la firma del prefatore  avvalla l’opera : merce griffata.

Pubblicato il libro, il poeta vuole naturalmente essere letto.  Da chi?  - Ebbé, dal lettore. E dove lo trova?  Se non sei uscito per sortilegio dalle mani di pochissime Case Editrici di potere (diciamo del Nord), nessuno ti conosce, nessuno ti fila.  Ed ecco il poeta si dà un gran daffare per acquisire ‘visibilità’ (così poco, tirate le somme!).  Prima cosa distribuisce da sé il libro fra amici, poeti, persone che trovano tempo per la poesia. Si organizza in letture pubbliche, su siti, su blog, e-book e quant’altro: un lavorìo di recensioni, di presentazioni, con l’aiuto di compiacenti poeti che si improvvisano critici (dato che in effetti sono specialisti della materia), i quali a loro volta riceveranno attenzione da altri consimili.  Gentilezze di scambio?  Tutto con serietà.
“… i geologi scrivono per i geologi…”,(etc),  scriveva il poeta Sally Prudhomme, primo Premio Nobel per la Letteratura, all’inizio del Novecento, per dire che ogni corporazione di specialisti, per esempio i poeti, è chiusa in se stessa a cerchio.

“I poeti scrivono per i poeti”. Si stimolano a vicenda, magari da una poesia nasce un’altra poesia, le voci si intersecano, si prolungano echi. 
Oggigiorno tuttavia c’è saturazione anche fra gli ‘adepti’ ai lavori, i poeti che frequentano le letture pubbliche, in librerie, Biblioteche, etc., che leggono i libri degli altri poeti, ne parlano. Come fare? Troppe voci, troppi scritti, che poi in fondo si differenziano poco fra loro. Si dà un’occhiata all’insieme, si legge qua e là, si esprime il proprio pensiero approssimativo, magari focalizzato a un solo aspetto del problema.  
E dove si trova la ‘critica ufficiale’?
I giornalisti non scrivono di letteratura contemporanea sui giornali (tanto meno di poesia) da lungo tempo.  Pare che ci siano quattro o cinque critici in Italia che si interessano di poesia. Quasi sempre essi stessi sono poeti. E chi li raggiunge? Nella marea della produzione vengono assillati ogni giorno da libri su libri. Se ne devono difendere.
Come in ogni ramo dell’arte, oggi è difficile distinguere personalità di rilievo. In ogni campo non nascono più ‘star’. Tutto è pressocché livellato.  In Italia, tolta Alda Merini, non nasce una seconda icona di poesia.  E la ‘lirica’ non è più possibile.
Così decade anche la critica, che non ha materia per parlare; la critica seria e completa che preveda, non solo qualche citazione di versi o di micro-testo in recensioni sommarie e affrettate, per ragioni varie, e di spazio, ma possibilmente un’analisi critico-interpretativa a dovere : e del procedimento scrittorio, e delle varie fasi interne all’opera, geometrie di gioco, motivazioni, architettura d’insieme, un’indagine dei significati superficiali o profondi.
“Testuale” è l’unica rivista dichiarata “critica della poesia contemporanea”, che tuttavia si occupa raramente di poeti viventi (esclude le recensioni).

Il mondo - anche quello poetico - è cambiato. La critica, se c’è, dov’è, guarda oggi con occhi diversi.  Gli stessi poeti acquisiti del recente Novecento perdono di sostanza. Molti vengono messi in discussione di merito. Chi si leggerà ancora nel futuro?
Insipienza è diffusa.  Cosa si pretende dalla critica, quando si dice che essa è in crisi, che non esiste più?
Da quando sono cessate le complicazioni della forma esteriore dj un testo, e ha perso valore il disegno propositurale dell’insieme per creare armonia e letteratura, in assenza di codici estetici, resta poco da sottoporre a oggetto di studio.  I critici si sono stancati delle situazioni stagnanti. La spinta emozionale, o di pensiero, che fa scrivere, non coincide con la spinta dell’emozione che fa leggere.  Spesso chi legge non trova nei testi corrispondenze di senso in comune, neppure un certo rigore e governo di penna che li renda appetibili al primo sguardo.

Il gusto moderno rifugge dalla qualità ‘lirica’, emblema aristocratico della tradizione..
I poeti la trasformano in qualcos’altro che, ove seduca, non convince più di tanto. Perché la Bellezza imprescindibile ha un solo aspetto di luce.
In questo modo non si sa quanto e come possa vivere un libro di poesia.
Qualora certi critici lo prendano in considerazione, c’è ancora da interrogarsi circa l’effetto che ciò può produrre.  Scrive ancora Sally Prudhomme, poeta  (in ‘Pensieri’):

“ La sorte dei libri è curiosa. Un’opera può essere scritta da un soggetto serio, da uno superficiale, o da uno sciocco;  può essere giudicata da uno sciocco, da uno superficiale, o da uno serio.
Combinate due a due questi diversi caratteri e valuterete le possibilità di una reputazione.
Si pubblica per vanità.”

E questo conclude davvero ogni discorso sulla critica.



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Forse il poeta per primo dovrebbe disporsi in proprio, con occhio distaccato, a leggersi, rileggersi, correggersi; stringere, eliminare; limare, rifinire. Decidere la sua critica. Tenendo d’occhio il possibile gradimento del lettore (se non vuole scrivere soltanto per sé): sviluppare un dialogo, oltre l’amore di sé, oltre lo standard banalizzante che lo contempla.  Il lettore chiede chiarezza, vuole capire.


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Qualcosa di nuovo - e di artistico - in poesia si è visto fare da nuove presenze di questi ultimi anni, che hanno dato una svolta al concetto di poesia.   Per lo più, donne:  Irene Ester Leo,  Bianca Madeccia,  Mariagrazia Calandrone,  esperte anche nella nuova forma d’arte audio-visiva, la video-poesia.  Struttura poetica solida, compatta, verso lungo. Una forza emozionale sospinge la loro scrittura, cui si concedono senza riserve, un ardore spirituale, di quasi mistica infatuazione, in scoppiettanti terminologie, un’energia di parola che scalcia e scalpita, saltando in correnti di direzione contraddittoria. Un fiume scorre in acqua trasparente con detriti sotterranei tenuti tuttavia celati. I loro encomiabili approdi dovrebbero ora essere incanalati in un progetto di durata produttiva che non generi sazietà a lungo andare.

Gli uomini poeti, per contro, forse più ironici, si caratterizzano in un impianto di pensiero governato da maggiore ‘consecutio logica’, coerenza, con effetti di timbrica più tranquilla, ma di minore forza coinvolgente.
In un passato meno recente, alcuni poeti hanno operato un intervento di rottura e di innovazione, di innesto nel corpo della Tradizione, sviluppando, con strategie diverse, un proprio concetto di scrittura e di argomentazione, che però non ha avuto séguito. Fra loro,  diversamente proponibili, Edoardo Sanguineti (dallo sperimentalismo ’63 fino a tempi non lontani): signorile, astuto, (‘accademico’), dissacrante, mondano; Giorgio Linguaglossa, serioso, elucubrativo, solitario, voce forte, procedura drammatica, il quale con “Paradiso” voleva forse riproporre, in farraginosa modernità, i fasti di un “Paradise lost”, di Milton.
Giorgio Linguaglossa è oggi l’autore di un saggio di oltre 400 pagine, “Dalla lirica al discorso poetico”, Edilet, 2011, che prende in considerazione lo stato della poesia in Italia dal 1945 ad oggi. Un lavoro di enorme impegno, per il quale i poeti, comunque siano rappresentati, con quali lacune, devono essere solamente grati.

Altri poeti sono appendici di intellettualismo che perdura nella ricerca poetica. Per esempio, la compagine che fa capo a Flavio Ermini, ‘Anterem’ - all’insegna di teorie benjaminiane - , di alta qualità progetturale e scelta di linguaggio – diciamo anche Gio Ferri (sebbene promulghi ‘comunione/comunicazione’ della parola), lo stesso Ermini, Ida Travi, Rosa Pierno e molti altri.  Il discorso, solitamente poco permeabile, si evolve per frammenti, in eterna ricerca dell’origine pre-babelica del verbo, il luogo dove la lingua, criptica, s’adombra di oscurità che nessuna luce dissolve.

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Tantissimi poeti, presi singolarmente, hanno dato opere distintive, degne di nota. Non è questa la sede.  La presente riflessione ha una vista parziale, naturalmente non è esaustiva.
Altri, a maggior titolo, avranno voce ad allargare il panorama.



venerdì 22 luglio 2011

Per una poesia personalista

Per una poesia personalista
di Maurizio Soldini
In questi giorni di calura e di sommovimenti politico-economici, chi avrebbe detto che ci sarebbe stata una querelle letteraria? Mi riferisco al dibattito sulla poesia introdotto dall’articolo di Paolo Di Stefano e seguito dagli interventi di Andrea Cortellessa, Daniela Marcheschi e Alfonso Berardinelli sul Corriere della Sera, a cui hanno fatto per ora seguito Maria Grazia Calandrone sul Manifesto e Guido Oldani sull’Avvenire. C'è stato poi un fuoco di paglia con alcuni interventi molto interessanti a proposito del libro appena uscito di Giorgio Linguaglossa. Poi sembrerebbe sceso il silenzio. Spero che a settembre il dibattito continui. Vorrei spendere ora qualche considerazione sugli interventi di Di Stefano, Marcheschi, Oldani, Cortellessa, Calandrone. Le prime impressioni sul libro di Linguaglossa le ho espresse nella recensione su Avvenire qualche giorno fa. Vorrei dire dire quello che secondo me è l'orizzonte nel quale il poeta dovrebbe trovare il suo ruolo. Di Stefano afferma che “il mondo ignora la poesia” e cerca in qualche modo quelle che potrebbero esserne le cause. Certamente il tema è complesso e come dice Guido Oldani nel suo intervento, bisogna fare in modo che si sposti il dibattito sulle Riviste di settore, perché è necessario affrontare temi come quello del canone e del realismo, che per il poeta di Melegnano è un realismo terminale che non è se non il nuovo canone, per di più coatto. Sono d’accordo con Oldani ad aprire un confronto serrato e serio degli addetti ai lavori sulle Riviste specializzate, là dove lo spazio permette maggiore potenza argomentativa, ma non disdegno che questi temi, anche se sintetizzati a livello divulgativo, finiscano sui quotidiani come sta avvenendo con il dibattito in atto. Di Stefano si pone fondamentalmente il problema di che cosa sia cambiato che spieghi l'isolamento odierno della poesia nei confronti della narrativa rispetto al Novecento, quando Montale, Sereni, Raboni, Sanguineti e altri dettavano dall’interno del mondo editoriale una precisa condotta di canone poetico e nello stesso tempo di gestione delle pubblicazioni di poesia che consentivano a questo genere letterario di avere rispetto, dignità, successo e soprattutto pubblico. Oggi ci sono motivi interni e motivi esterni e contingenti a determinare la salute della poesia. Sicuramente, parlando dei problemi interni, molte patologie della poesia, che qualche tempo fa ho definito poesiosi, poesite e poesiopenia, dipendono da fattori intrinseci al fare poesia come il fatto che di poesia se ne scrive troppa e se ne legge poca, perdendo di vista riferimenti e canoni, al punto tale che per motivi giustappunto patologici il prodotto poesia è poco e povero. “Di tali patologie della letteratura, incapace di prendere le distanze critiche da una realtà strutturata del nostro Paese, si indebolisce la poesia, oramai per happy few” afferma Daniela Marcheschi. Questo non significa che oggi non abbiamo una buona schiera di poeti, come Cucchi, Conte, Mussapi, Rondoni, Maffia, lo stesso Oldani, Maria Pia Quintavalla, Gabriella Sica e tantissimi altri, tanto che concordo con Di Stefano quando afferma che “gli ottimi poeti oggi non mancano, ma hanno pochissimo seguito, a differenza dei tanti narratori mediocri”. I fattori esterni e contingenti non sono da meno a creare problemi: le politiche editoriali, soprattutto delle maggiori case editrici, che oggi privilegiano quasi esclusivamente la narrativa; i librai, - per lo più, ma ci sono le eccezioni, - che se va bene, riservano alla poesia un piccolo cantuccio; la visibilità mediatica e la creazione del personaggio-poeta, come Alda Merini, e pertanto il ruolo dei mass-media e soprattutto della televisione; i giornali quotidiani e settimanali, che secondo Di Stefano, parlano poco e niente di poesia – ma anche qui mi sentirei di fare qualche eccezione, soprattutto a favore di Avvenire che quasi ogni giorno accoglie editoriali, articoli, recensioni e polemiche che riguardano la poesia. Ma uno dei problemi più gravi che riguarda la poesia è quello della lingua, che nella narrativa sta sempre più adattandosi ad un pedale bassissimo che spesso rasenta la volgarità – anche qui per lo più, dal momento che ci sono molti casi agli antipodi – che fa sì che il pubblico preferisca la lingua delle narrazioni alla lingua della poesia. A tale proposito è necessario tenere presente che il pedale basso alletta molti poeti collocabili in quello che viene definito il minimalismo. Nell’articolo di Di Stefano, Fabio Pusterla afferma che “ la poesia non conta nulla, eppure riesce a manifestarsi in autori e opere notevoli. La prosa è al centro di ogni attenzione, ma sono pochi o pochissimi i romanzi italiani capaci di rappresentare davvero qualcosa di importante per la nostra vita e per la nostra conoscenza del mondo”. La poesia ha potenzialità inusitate e questo lo sappiamo da sempre, come lo sapevano i greci di Omero, i romani di Orazio, gli italiani in divenire di Dante e così via, soltanto che negli ultimi decenni sembrerebbe che siamo stati colti dall’amnesia. Per la poesia sembrerebbe che sia avvenuto quel che è avvenuto per l’Essere secondo Heidegger. Non sono venuti meno l’Essere e la poesia, che ci sono e sempre lì stanno, ma è subentrato l’oblio, il nostro oblio. E questo è stato possibile perché dalla modernità in poi, fin ad arrivare alla recente post-modernità è venuto meno e si è annichilito il concetto di oggettivo – e pertanto di una poesia oggettiva e condivisa – e si è ipertrofizzato l’io al punto che la soggettività è degenerata nel solipsismo, anche della poesia, dove sembrerebbe che non solo il canone non c’è, ma non sia necessario, in quanto ogni poeta avrebbe il suo canone. Andrea Cortellessa è molto acuto nella sua analisi e sostiene che una volta “le voci dei poeti facevano ancora parte d'una koinè, si riferivano a codici condivisi; in seguito hanno assomigliato sempre più a monadi non comunicanti”. Sempre Cortellessa afferma perentoriamente, e sono in pieno accordo con lui, che “più in generale dovremmo far sì che la separatezza sociale della poesia, il suo scisma dai dogmi del profitto, la sua nevrotica cura del linguaggio, da privilegi - e maledizioni - individuali, divengano strumenti di conoscenza per l'intera comunità. Come altre ricchezze che si è deciso di non lasciare alle industrie del cinismo anche la poesia, insomma, deve divenire un bene comune”. La comunanza di intenti è anche con Maria Grazia Calandrone, quando afferma la necessità di una con-vivenza di persone parlanti in una dimensione fisico-biologica e metafisica nella quale “il fondamento del fare poesia è una compassione etimologica e primaria, ovvero la identificazione con il bene e il male dell’altro”. Perché fondamentalmente la poesia si manifesta attraverso la parola e la parola non sono i poeti a farla, ma è essa stessa che passa attraverso di loro e fuoriesce per rientrare nell’oggettività, per appartenere ad una comunità di persone che vivono insieme e condividono le gioie e i dolori della vita. Tutti noi pertanto dobbiamo interrogarci anche su quanto ci sia di soggettivo e di oggettivo nella poesia, quanto significhi comunanza di valori fisici e metafisici, ma soprattutto quanto ci sia nella poesia di ontico e di ontologico, ai fini di una poesia personalista che ricerchi nella realtà il bene comune. In questa dimensione il poeta trova il suo ruolo.