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venerdì 22 luglio 2011

Per una poesia personalista

Per una poesia personalista
di Maurizio Soldini
In questi giorni di calura e di sommovimenti politico-economici, chi avrebbe detto che ci sarebbe stata una querelle letteraria? Mi riferisco al dibattito sulla poesia introdotto dall’articolo di Paolo Di Stefano e seguito dagli interventi di Andrea Cortellessa, Daniela Marcheschi e Alfonso Berardinelli sul Corriere della Sera, a cui hanno fatto per ora seguito Maria Grazia Calandrone sul Manifesto e Guido Oldani sull’Avvenire. C'è stato poi un fuoco di paglia con alcuni interventi molto interessanti a proposito del libro appena uscito di Giorgio Linguaglossa. Poi sembrerebbe sceso il silenzio. Spero che a settembre il dibattito continui. Vorrei spendere ora qualche considerazione sugli interventi di Di Stefano, Marcheschi, Oldani, Cortellessa, Calandrone. Le prime impressioni sul libro di Linguaglossa le ho espresse nella recensione su Avvenire qualche giorno fa. Vorrei dire dire quello che secondo me è l'orizzonte nel quale il poeta dovrebbe trovare il suo ruolo. Di Stefano afferma che “il mondo ignora la poesia” e cerca in qualche modo quelle che potrebbero esserne le cause. Certamente il tema è complesso e come dice Guido Oldani nel suo intervento, bisogna fare in modo che si sposti il dibattito sulle Riviste di settore, perché è necessario affrontare temi come quello del canone e del realismo, che per il poeta di Melegnano è un realismo terminale che non è se non il nuovo canone, per di più coatto. Sono d’accordo con Oldani ad aprire un confronto serrato e serio degli addetti ai lavori sulle Riviste specializzate, là dove lo spazio permette maggiore potenza argomentativa, ma non disdegno che questi temi, anche se sintetizzati a livello divulgativo, finiscano sui quotidiani come sta avvenendo con il dibattito in atto. Di Stefano si pone fondamentalmente il problema di che cosa sia cambiato che spieghi l'isolamento odierno della poesia nei confronti della narrativa rispetto al Novecento, quando Montale, Sereni, Raboni, Sanguineti e altri dettavano dall’interno del mondo editoriale una precisa condotta di canone poetico e nello stesso tempo di gestione delle pubblicazioni di poesia che consentivano a questo genere letterario di avere rispetto, dignità, successo e soprattutto pubblico. Oggi ci sono motivi interni e motivi esterni e contingenti a determinare la salute della poesia. Sicuramente, parlando dei problemi interni, molte patologie della poesia, che qualche tempo fa ho definito poesiosi, poesite e poesiopenia, dipendono da fattori intrinseci al fare poesia come il fatto che di poesia se ne scrive troppa e se ne legge poca, perdendo di vista riferimenti e canoni, al punto tale che per motivi giustappunto patologici il prodotto poesia è poco e povero. “Di tali patologie della letteratura, incapace di prendere le distanze critiche da una realtà strutturata del nostro Paese, si indebolisce la poesia, oramai per happy few” afferma Daniela Marcheschi. Questo non significa che oggi non abbiamo una buona schiera di poeti, come Cucchi, Conte, Mussapi, Rondoni, Maffia, lo stesso Oldani, Maria Pia Quintavalla, Gabriella Sica e tantissimi altri, tanto che concordo con Di Stefano quando afferma che “gli ottimi poeti oggi non mancano, ma hanno pochissimo seguito, a differenza dei tanti narratori mediocri”. I fattori esterni e contingenti non sono da meno a creare problemi: le politiche editoriali, soprattutto delle maggiori case editrici, che oggi privilegiano quasi esclusivamente la narrativa; i librai, - per lo più, ma ci sono le eccezioni, - che se va bene, riservano alla poesia un piccolo cantuccio; la visibilità mediatica e la creazione del personaggio-poeta, come Alda Merini, e pertanto il ruolo dei mass-media e soprattutto della televisione; i giornali quotidiani e settimanali, che secondo Di Stefano, parlano poco e niente di poesia – ma anche qui mi sentirei di fare qualche eccezione, soprattutto a favore di Avvenire che quasi ogni giorno accoglie editoriali, articoli, recensioni e polemiche che riguardano la poesia. Ma uno dei problemi più gravi che riguarda la poesia è quello della lingua, che nella narrativa sta sempre più adattandosi ad un pedale bassissimo che spesso rasenta la volgarità – anche qui per lo più, dal momento che ci sono molti casi agli antipodi – che fa sì che il pubblico preferisca la lingua delle narrazioni alla lingua della poesia. A tale proposito è necessario tenere presente che il pedale basso alletta molti poeti collocabili in quello che viene definito il minimalismo. Nell’articolo di Di Stefano, Fabio Pusterla afferma che “ la poesia non conta nulla, eppure riesce a manifestarsi in autori e opere notevoli. La prosa è al centro di ogni attenzione, ma sono pochi o pochissimi i romanzi italiani capaci di rappresentare davvero qualcosa di importante per la nostra vita e per la nostra conoscenza del mondo”. La poesia ha potenzialità inusitate e questo lo sappiamo da sempre, come lo sapevano i greci di Omero, i romani di Orazio, gli italiani in divenire di Dante e così via, soltanto che negli ultimi decenni sembrerebbe che siamo stati colti dall’amnesia. Per la poesia sembrerebbe che sia avvenuto quel che è avvenuto per l’Essere secondo Heidegger. Non sono venuti meno l’Essere e la poesia, che ci sono e sempre lì stanno, ma è subentrato l’oblio, il nostro oblio. E questo è stato possibile perché dalla modernità in poi, fin ad arrivare alla recente post-modernità è venuto meno e si è annichilito il concetto di oggettivo – e pertanto di una poesia oggettiva e condivisa – e si è ipertrofizzato l’io al punto che la soggettività è degenerata nel solipsismo, anche della poesia, dove sembrerebbe che non solo il canone non c’è, ma non sia necessario, in quanto ogni poeta avrebbe il suo canone. Andrea Cortellessa è molto acuto nella sua analisi e sostiene che una volta “le voci dei poeti facevano ancora parte d'una koinè, si riferivano a codici condivisi; in seguito hanno assomigliato sempre più a monadi non comunicanti”. Sempre Cortellessa afferma perentoriamente, e sono in pieno accordo con lui, che “più in generale dovremmo far sì che la separatezza sociale della poesia, il suo scisma dai dogmi del profitto, la sua nevrotica cura del linguaggio, da privilegi - e maledizioni - individuali, divengano strumenti di conoscenza per l'intera comunità. Come altre ricchezze che si è deciso di non lasciare alle industrie del cinismo anche la poesia, insomma, deve divenire un bene comune”. La comunanza di intenti è anche con Maria Grazia Calandrone, quando afferma la necessità di una con-vivenza di persone parlanti in una dimensione fisico-biologica e metafisica nella quale “il fondamento del fare poesia è una compassione etimologica e primaria, ovvero la identificazione con il bene e il male dell’altro”. Perché fondamentalmente la poesia si manifesta attraverso la parola e la parola non sono i poeti a farla, ma è essa stessa che passa attraverso di loro e fuoriesce per rientrare nell’oggettività, per appartenere ad una comunità di persone che vivono insieme e condividono le gioie e i dolori della vita. Tutti noi pertanto dobbiamo interrogarci anche su quanto ci sia di soggettivo e di oggettivo nella poesia, quanto significhi comunanza di valori fisici e metafisici, ma soprattutto quanto ci sia nella poesia di ontico e di ontologico, ai fini di una poesia personalista che ricerchi nella realtà il bene comune. In questa dimensione il poeta trova il suo ruolo.